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Materiale Didattico

Lasciami andare, madre - L’inconfessabilità del male e il suo peso


La “tragedia europea” della prima metà del xx secolo, con due guerre mondiali costate oltre 80 milioni di morti e feroci dittature che usavano la violenza per vincere, trova nell’Olocausto nazista il suo drammatico culmine. Le persone coinvolte in questo dramma ne hanno avuto le vite sconvolte, sono diventati uccisori e uccisi, assassini e vittime. La “tragedia europea” ha separato buoni e cattivi, e i peccati di questi ultimi sono stati terribili: la morte di massa, lo sterminio degli innocenti e dei deboli.
Le persone sono state talvolta trascinate nel vortice senza loro colpa, ma anche senza la possibilità di ignorarlo. È il caso di figlie e figli di nazisti, bambini durante la guerra, come i sei figli di Josef Göbbels, fautore della propaganda nazista e ossessivo antisemita, avvelenati dai genitori suicidi nel bunker sotterraneo di Hitler. Questi piccoli non avevano colpe, ma come si può vivere se non tragicamente portando il cognome di Himmler o di Göring, assurti a simboli assoluti della criminalità moderna? Si può cambiare cognome; si può, invece, dai ranghi di associazioni neonaziste, cercare disperatamente di giustificare il padre; si possono scegliere mestieri lontanissimi che sembrano quasi un’emigrazione; si può dedicare la vita a nobili cause per espiare colpe non direttamente proprie. Tutte queste soluzioni sono state abbracciate da figli e figlie dei criminali nazisti. Ma, consapevolmente o meno, non si può “far finta di niente” quando i ricordi di infanzia, delle gioie dell’età dell’innocenza, dell’amore così identitario per mamma e papà si accompagnano a un genitore colpevole di avere ordinato o perpetrato direttamente l’assassinio di migliaia o milioni di innocenti.
Questa è la condizione sofferta dall’autrice di questo libro, attanagliata da due impossibilità: quella di cancellare da sé il sentimento e il posto di una madre e quella di negare di essere cresciuta immersa nella negatività. Ma qui c’è qualcosa di più del “normale” criminale nazista (anche se per il genocidio di “normalità” non si può mai parlare): paradossalmente il dominio maschile nella società europea di allora permetteva alle donne tedesche di evitare le responsabilità connesse alle cariche più alte del regime nazista. Non ci sono state donne sedute sul banco degli imputati al processo di Norimberga.
Le donne dovevano essere suddite entusiaste del Führer e inverare il dettame nazista di dare vita a famiglie numerose e nazionaliste. Al limite potevano essere operaie dell’industria della morte nei campi di concentramento e svolgere i lavori più “sporchi” di una pratica omicida.
L’ulteriore dramma della Schneider è che sua madre si è lanciata in un attivismo titanico e ossessivo per “fare carriera”, diventando un’aguzzina nel campo di concentramento di Birkenau. A guerra finita, la madre non poteva invocare l’insensata giustificazione, come hanno fatto molti altri criminali nazisti, di avere semplicemente obbedito agli ordini. Né potevano sostenere che nella Germania in guerra il delitto era un triste mestiere che qualcuno doveva pur fare, come si dicevano i membri degli squadroni della morte, alacremente impegnati a passare per le armi ebrei, nemici politici, quadri dirigenti, handicappati in tutti i territori occupati. E infatti l’anziana signora non usa alcuno di questi argomenti.
Tacitamente, ma se pressata anche esplicitamente, ribadisce la sua scelta di avere abbandonato la famiglia per entrare nei ranghi del fanatismo nazista, di avere sacrificato con convinzione gli affetti più cari per entrare a far parte delle SS; continua a essere incorruttibile, solida e senza crepe nel suo razzismo estremo e volgare, ribadendo, a tanti decenni di distanza, che bisognava uccidere i bambini ebrei perché da grandi non infettassero la razza ariana tedesca. Forse chi abbia perpetrato questo doppio crimine, di avere massacrato e di essersi doppiamente attivato per poterlo fare, non può continuare a vedersi vivere se non conservando in sé, come una roccia senza scalfitture, questo esempio così lampante di “ideologia assassina”.
La figlia non è stata meno drammaticamente attiva per provare ad allontanare da sé “il passato che non passa”, radicato negli affetti più intimi della sua vita e della sua memoria. Ha abbandonato la Germania, ha sposato uno straniero, non scrive nella sua lingua d’origine, vive in Italia, non ha mai più incontrato la madre. Ma proprio la radicalità di queste scelte indica che la “tragedia europea”, divenuta biografia personale, è un terribile fardello per tutti, assassini e vittime.
La madre novantenne vive da sola in un istituto, presto non sarà più di questo mondo. L’autricefiglia, nell’accettare infine di vederla, scopre una vecchia cocciuta ed egoista, che non chiede amore, ma cura e compagnia. Per la figlia la situazione non può sfuggire alle opposte spinte della pietà, del rancore e dello scudo della lontananza. La figlia ha un bisogno essenziale, per giustificare quel rapporto pur minimale con la genitrice: potere scorgere qualche piccola crepa nella dura testardaggine autogiustificativa dell’anziana, che non cerca di proclamarsi innocente o colpevole, ma semplicemente non processabile.
Le protagoniste sono accomunate da due divergenti impossibilità che sono condizione di vita per ciascuna di loro, una comunanza che non cancella affatto la diversa condizione di carnefice (la madre) e di vittima (la figlia) tra gli altri milioni di vittime più tragiche ancora di lei. Il libro si conclude così con un nulla di fatto: non si stabiliscono comunicazioni, non si elaborano lutti. “Il passato che non passa” ha imprigionato ciascuna di loro in un’insuperabile immobilità reciproca. L’unico respiro al groppo inestricabile della figlia è portarlo fuori di sé, guardarlo come altro da sé, facendone l’oggetto della scrittura. La letteratura non cancella e non consola, ma forse lo scrivere concede un istante di tregua.

Maurizio Vaudagna, docente di Storia contemporanea, Università del Piemonte orientale

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